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    Bruno Marino, storico dei media

    Vi sono tre livelli della rappresentazione che si intrecciano in Vulnerare, tre livelli che ne generano poi – nel suo svolgimento – altrettanti, richiamando nella mente dello spettatore suggestioni ed emozioni.

    Il primo è quello relativo al luogo, un carcere dismesso nello specifico, anche se la location rimanda quasi a un genere trasversale dell’audiovisivo, ovvero la ri-messa in scena di spazi smantellati e fatiscenti che evocano un passato più o meno recente e traspirano di memorie più o meno dolorose (dai penitenziari borbonici ai manicomi pre-basagliani, ma vi sono anche le discoteche anni ’80 in questo lungo elenco).

    Il secondo livello è quello performativo: la danza diventa in alcuni casi il modo per riappropriarsi di questi siti, restituendo loro simbolicamente vita. Il terzo livello è costituito dall’inserimento di alcune opere, realizzate dallo stesso artista-cineasta, nello spazio esplorato dalla videocamera: si tratta di quadri astratti che – collocati dentro le celle che hanno ospitato i detenuti – trasformano il luogo in una sorta di museo, caricandolo di ulteriori significati e, a loro volta, sono investiti anch’essi di inediti significati grazie allo spazio in cui si inseriscono perfettamente, in modo quasi da mimetizzarsi.

    L’intento di Vulnerare è di fondere insieme arte visiva, danza e cinema, con l’aggiunta di un commento sonoro di grande efficacia dove la musica si fa rumore e il rumore si fa musica (l’autore è Andrea Moscianese). Ma anche quello di costruire una possibile narrazione, cui contribuiscono le scritte di chi ha vissuto qui per anni, rinchiuso tra queste mura, gli oggetti, i faldoni processuali che rimandano a una kafkiana burocrazia, le piante che sono spuntate in mezzo al cemento riprendendosi il maltolto e – infine – tutte le possibili tracce e testimonianze di una dimensione temporale che continua a riverberarsi nel vuoto desolato.

    Prima dei titoli di coda la didascalia ci avverte che il carcere dove siamo entrati è quello pontificio di Velletri, ma è un’informazione che non aggiunger granché alla nostra visione. Ciò che rimane sono le superfici che lo sguardo di Illuminato ci consente di percepire quasi tattilmente. Pareti, pavimenti, soffitti, porte, finestre che diventano tagli, ferite, faglie, cesure, mentre i gesti corografici – che si inscrivono dentro questa geometria di pieni e di vuoti architettonici – e la materia pittorica sulle tele, appese o appoggiate ai muri in mezzo ai detriti, diventano momenti di un’unica partitura visiva grazie aI travelling con la camera a mano, alle dissolvenze, ai giochi di chiaroscuro, alle intermittenze luminose, alle rapide zoomate, ai dettagli, agli stacchi improvvisi scanditi da un chirurgico montaggio.  

    Vulnerare può, infine, essere letto come un’unica installazione. E, in questo senso, la presenza dello stesso Illuminato all’interno di uno dei cortili, sembra chiudere il cerchio. La sagoma dell’artista vista dall’alto fissa una frase (oppure sono due collegate tra loro?) che qualcuno ha scritto sul muro: “Vulnerabile dunque vivo. Arte è amare la realtà”.

    La vulnerabilità rappresenta una debolezza poiché l’uomo può essere vittima di altri uomini, ma è anche la sua forza, in quanto cosciente di essere vivo perfino nel dolore. Anche l’artista è vulnerabile nel momento in cui affronta il reale, immergendovisi dentro.

    La consapevolezza che fare arte vuol dire, inevitabilmente, amare la realtà non è un assunto sempre valido. Non lo è sicuramente per quegli artisti che, attraverso la creazione, cercano di sfuggire alla dimensione nella quale vivono.

    Ma in questo caso il compito di chi fa arte è quello di raccontare la condizione umana all’interno dell’universo concentrazionario, e ciò che resta della dignità delle persone anche se private della loro libertà.